Da Ego a Eco – Educare alla prevenzione

L’educazione è promozione del benessere, creazione di spirito critico, continua progettazione per un futuro sempre migliore.Nessuno parla dei giovani, nemmeno una notizia ai telegiornali sulle conseguenze di queste misure restrittive su di loro, forse perché chi sta subendo più traumi in assoluto sono loro. La scelta è tra il mantenere qualcosa di umano (essendo comunque derisi e ghettizzati dalla maggioranza) o diventare robot ipnotizzati e omologati per i quali il termine “responsabilità” non è un valore da preservare ma un peso da scaricare.I bambini, e i giovani più in generale, stanno assistendo ad un boicottaggio della cultura e dell’affettività come principale veicolo di comunicazione. Stanno crescendo (ormai tra 4 mesi è un anno) fuori da ogni principio pedagogico per la promozione del benessere individuale, e quindi collettivo. Ma loro non hanno voce in capitolo, anche se loro saranno il futuro. Una generazione cresciuta con il divieto del contatto, del sorriso, della complicità del compagno di banco, della cooperatività del gioco di squadra. Privata di ogni forma di arte e di affetto, abituata a considerare la malattia come un male da sconfiggere invece che come una risorsa che rende l’organismo, corpo e mente, più forte. L’educazione, come la sanità, sta diventando sempre più selettiva, per pochi, per chi ha computer e internet a casa. E tutti gli altri? Viene riconosciuta una sola forma di intelligenza, quella che da produttività al sistema, governata dalla competitività e lontana dai valori di comunità e di benessere collettivo.Si parla solo di cura e mai di prevenzione, forse perché la cura porta più profitto, mentre la prevenzione è un percorso continuo di responsabilità consapevole: alimentazione sana, attività fisica, pensieri positivi che riconoscono ogni parte come indispensabile al tutto.Il virus esiste, ma privando l’essere umano di essere umano come facciamo a sviluppare gli anticorpi? Obbedire senza chiedersi perché è il nuovo motto.

Non possiamo fare domande perché non siamo competenti, quando però gli stessi che si definiscono competenti, come i virologi in questo caso, litigano tra di loro in televisione perché hanno pareri contrastanti. Vietano le attività che promuovono benessere psico-fisico ma lasciano i centri commerciali aperti, chiudono i centri culturali e sociali ma rimangono aperte le chiese. non possiamo invitare a casa amici e parenti ma dobbiamo lavorare 8 ore al giorno davanti ad un dispositivo che crea stress e ansia: il famoso smart working che di smart ha ben poco.Stiamo assistendo alla dimostrazione che l’individualismo tanto proclamato ha fatto morire piano piano il desiderio di cittadinanza attiva. “Benessere comune” per la maggioranza sono solo due parole messe insieme senza significato o con il solo significato di limitazione delle libertà personali.L’unico lavoro possibile sarà quello dipendente e i liberi professionisti non esisteranno più. Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte in Italia e più in generale nel mondo, i tumori la seconda e per impedire il loro sviluppo bisogna contrastare fumo, scarsa attività fisica e cattiva alimentazione (compreso il consumo di alcol). Dove sono le misure di sicurezza? Dov’è la prevenzione?  I tabacchi sono aperti h24 con le loro splendide macchinette; l’alcol è diventato il principale veicolo di socializzazione, la droga legale; l’obesità e l’anoressia come una scelta e non una malattia mentre l’alimentazione sana è vista come una moda radical chic. Forse manca una vera educazione al benessere, una promozione dell’agio che informi realmente, invece di nascondere le verità facendo malattie di categoria a e b, non in base alla gravità ma in base al profitto che portano quando una persona si ammala. 

«L’educazione deve contribuire allo sviluppo totale di ciascun individuo: spirito e corpo, intelligenza, sensibilità, senso estetico, responsabilità personale e valori spirituali. Tutti gli esseri umani devono essere messi in grado di sviluppare un pensiero autonomo e critico e di formarsi un proprio giudizio, per poter decidere da soli ciò che, a loro parere, debbono fare nelle diverse circostanze della vita.» (J. Delors (a cura di), Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della commissione internazionale sull’Educazione per il Ventunesimo Secolo, Armando Editore, Roma,2005.)

Recensione: Le pieghe del corpo a cura di Antonio Donato, Leonardo Tonelli e Eduardo Galak

el ritrovarmi costretta tra quattro mura urbane, la lettura del libro Le pieghe del corpo mi ha fornito un po’ di spunti abbastanza profondi da voler scrivere questa recensione. Al centro del libro si trova un’analisi organica, su cosa può un corpo, tanto in termini idealistici che fisici, come risultato dello sforzo di più autori che si sono ordinatamente spartiti gli altrettanti capitoli del libro. L’aspetto che mi è piaciuto di più è la scelta “Le pieghe del corpo” come titolo. Questo libro, indagando dal punto di vista filosofico e politico cosa può un corpo, sottolinea le infinite pieghe che un corpo può assumere, incrinando i molteplici dispositivi sociali (e istituzionali), evolvendosi in linee colorate, dinamiche e soggettive dalle quali nascono nuovi corpi, liberi dal determinismo biologico, culturale e politico. Tuttavia, il libro ci ricorda che il corpo non nasce come forma di opposizione ma come strumento di controllo. A tal proposito, l’autore tratta la relazione tra corpo e binomio potere-sapere, introducendo il concetto di tecnologia disciplinare del corpo foucaultiano. Quando si parla di corpo, si parla, nel bene e nel male, di discipline. Il momento delle discipline coincide con il momento durante il quale il corpo prende coscienza, migliora le abilità e diventa tanto più obbediente quanto più utile. L’autore rimarca come le discipline dettano dei poteri-saperi come pratiche normalizzate di intervento politico sul corpo. Metaforicamente, tali poteri-saperi vengono rappresentati come delle linee rettilinee e prestabilite che collegano le svariate discipline come quelle pedagogiche, militari, mediche e sportive. Tali linee non sono inflessibili come dimostrano certi esempi storici e filoni letterari che l’autore riporta come momenti di incrinatura della configurazione potere-sapere. Come primi punti di rottura, l’autore cita diverse riviste francesi nate negli anni sessanta-settanta (per esempio, Partesan Que Corps?) che pubblicano riflessioni criticanti il corpo moderno, mistificato dall’educazione fisica ordinaria e dallo sport capitalista. In questo contesto, l’educazione fisica è stata usata come strategia per raggiungere certi livelli universali di fitness e wellness (con tutte le connotazioni narcisistiche possibili) in modo da essere funzionale al mercato. A tal proposito, viene criticata la definizione di sport più moderna, definita dalla Carta Europea dello Sport, perché riduce lo sport, in modo confuso, ad un’attività deficitaria e omologante, confinata alla pratica corporea che fa bene al fisico e alla mente. Questa definizione non considera la sfera comunicativa e informativa che lo sport e le pratiche corporee in senso ampio si trascinano. Con le pratiche corporee, gli individui si esprimono in funzione del contesto, si amplificano le abilità soggettive e si tessono relazioni significative (e affettive perché no) con la comunità, con l’esterno. L’ambiente, dunque, può essere plasmato, ma nel senso positivo, cioè subendo dei processi di rigenerazione urbana, come quelli innescati da sport non convenzionali quali il parkour e la capoeira, che vengono ampiamente discussi in un capitolo del libro.Se dalla domanda cosa può un corpo si aprono infinite risposte legate alle capacità dei corpi di flettere tali meccanismi disciplinari, interrogarsi cos’è un corpo sembra risultare un tentativo superfluo e riduttivo. L’autore introduce un dibattito da tempo molto discusso dalle Scienze Sociali nell’ultimo secolo:il corpo è natura o cultura? Ammesso che il corpo sia solo natura, come si fa ad “educare naturalmente” un corpo? tramite criteri e parametri che standardizzano e normalizzano i corpi corretti, differenziandoli dai corpi abbietti (con quest’ultima parola ho sentito un brivido gelido lungo la schiena). Dunque, l’approccio “naturalistico” si avvale della scienza per misurare e definire i corpi corretti, e facendo questo, introduce, volontariamente o no, delle discriminazioni verso i corpi ritenuti scorretti. D’altra parte, la corrente più culturalistica e più moderna, invece, tende a considerare il corpo come un prodotto e una rappresentazione del sociale fino ad affermare che il corpo è unacostruzione del sociale. L’autore non sembra d’accordo con quest’ultima accezione, perché si mette in primo piano la società e il contesto rispetto al corpo. E qua nascono giuste domande: ma quali società? tutte le società? Anche quelle non riconosciute? Tutte le società sono uguali? Ma anche quelle delle piccole tribù indigene? O forse loro no, perché non parlano la nostra lingua e hanno il colore della pelle diverso? La visione più culturalista, come quella naturalista, tende ad universalizzare i corpi educati e i corpi abbietti e a delineare le estetiche e le anormalità.

Si creano, così, le società moderne fatte di corpi visibili, non visibili e invisibili, all’interno delle quali la discriminazione regna sovrana, emarginando i non corpi. Qui l’autore si sofferma sul rapporto tra estetica e massificazione dei corpi e dei loro movimenti, che ho apprezzato molto perché ricco di una veridicità così attuale che non viene quasi mai messa in discussione con i mezzi e le maniere giuste.  Andando avanti, un messaggio appare chiaramente dal testo, Il corpo non è, ma è costantemente in divenire. Questo concetto lo trovo molto interessante perché credo che attraverso il corpo sia possibile sottrarsi ad ogni tentativo di definizione e quindi di classificazione. La domanda cosa può un corpo sposta l’attenzione dall’essenza alla potenza dei corpi. Considerando la potenza, un corpo non è mai uguale a sé stesso come i corpi non sono mai identici gli uni dagli altri perché queste variazioni dipendono dai vari contesti. Ho apprezzato lo sforzo dell’autore nel far comprendere ciò: non esistono leggi di potenza, ma esiste una capacità di agire e fare del corpo che porta a risultati variabili a seconda dell’esercizio, dell’esperienza e dell’ambiente. Interrogarsi dal punto di vista della potenza, restituisce un’identità soggettiva al corpo-individuo, il quale può assumere forme diverse che non si possono conoscere (e quindi classificare) a priori. La potenza di un corpo non è solo il raggiungimento di certi livelli di performance ma è soprattutto, la capacità soggettiva di trasformarsi parallelamente e/o controcorrente al contesto ambientale e sociale e dunque la capacità di resistere e di svincolarsi dai meccanismi lineari dei rapporti di forza, di classificazione. Concludendo, mi è mancato il riferimento esplicito allo sport popolare, ma questa non vuole essere una critica perché probabilmente gli autori se lo sono risparmiato per evitare di scrivere un secondo libro. Il libro è composto da saggi filosofici, politici e sociali, scritti con un’impronta fortemente accademica, che a volte non è di immediata comprensione. Tuttavia, ho trovato questo libro stimolante sia per i contenuti che per il modo in cui sono raccontati. Dunque, certamente consiglio questa lettura a chi lavora con il corpo in senso ampio, come gli educatori, gli attori, gli sportivi o chi come me sente il bisogno di riflettere su come usare il corpo per fare politica. Ed in particolare la domanda cosa può un corpo? mi è stata di aiuto per ridefinirmi nei miei contesti: quello attuale, necessariamente condizionato dall’allontanamento forzato dalle mie compagne e dai miei compagni, ed il contesto di ieri, quello legato alla mia amata palestra popolare che ogni volta che frequento mi ricorda che siamo “potenza” e in quanto tale resistiamo..

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