E’ la terza volta in un anno che il nostro territorio, la piana fiorentina, ha l’onore di finire sulle prime pagine dei giornali nazionali.
La Firenze di cui piace parlare è quella della Santanché che balla il trenino sulle note di Maracaibo al forum sul turismo. Quella di Sting che piazza il suo vino rustico, quella della Ferragni che ci spiega quant’è bella la Venere di Botticelli, la Firenze quella da vendere a tranci ai ricchi studenti americani.
E poi succede che licenziano 500 operai via sms, si alluviona un’intera piana, muoiono cinque lavoratori sotto il crollo del cantiere dell’ennesimo centro commerciale, esplode un deposito dell’Eni. Nella piana di Firenze si muore, si perde tutto, si ingoia rabbia e amarezza.
E così, il tempo di un meme su instagram, di colpo le anime belle scoprono l’esistenza di una pattumiera fiorentina: si scopre l’abuso continuo del territorio, il consumo feroce di suolo. Si scoprono gli schiavi del tessile, si scopre che l’arcadia del rinascimento turistico è un paravento di cartone e che l’eccellente Made in Italy si costruisce sulla pelle degli sfruttat3.
Ma lo stupore dura il tempo di un attimo.
Noi invece non abbiamo il privilegio di poterci stupire. Lo sappiamo da tempo che il nostro territorio è intossicato, saturato e abusato in ogni modo che consente di fare profitto. Non leggerete sui giornali di esplosioni a Fiesole, nei quartieri ricchi, nel pittoresco Chiantishire. Qui si è costruito in ogni centimetro quadrato, si è concentrato tutto lo schifo che non si deve vedere: industrie inquinanti, aree classificate a rischio disastro, depositi di idrocarburi, oleodotti, aeroporti, discariche, centri della logistica, autostrade. Qui vengono prodotte le armi della Leonardo, si interrano canali idrici e bacini di espansione, si provocano alluvioni, crolli e continue morti sul lavoro trattate come danni collaterali. In effetti è proprio questo che sono: danni connaturati all’opera, come ci ha insegnato la TAV nel Mugello. L’opera del profitto di pochi assassini, pagata con il sangue di chi in questi territori lavora e vive.
E così, mentre a Montignoso si sgomberava la Casa Rossa, rifugio caparbio di chi lotta contro lo sfruttamento delle Apuane e del territorio montano, un enorme boato ci scuote le case, ci sfonda i vetri, solleva i tetti delle fabbriche dove stiamo lavorando. I padroni ci dicono che non si va a casa “per così poco”, Giani si mette la faccia triste, ci rassicurano che l’aria non è più terribile del solito. Altrove si inizia la conta dei morti, ad oggi cinque, si soccorrono i feriti, si ripara con un cucchiaino la falla di una barca che sta affondando ogni giorno sempre di più.
E noi ci stringiamo, ancora una volta e ancora di più, come comunità solidale. Sapendo di poter contare sulla rete di mutuo appoggio degli spazi autogestiti, delle case del popolo, delle fabbriche in lotta, dei sindacati dal basso e di tutte le abitanti e gli abitanti.
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