Sono passati sette mesi da che guardavamo il mondo dal chiuso delle abitazioni e i supermercati erano la sola fonte di socialità ammessa. La situazione sembra ripresentarsi in un crescendo piuttosto prevedibile.Lo scenario economico e sociale intorno a noi è andato complessivamente peggiorando e in qualche modo inevitabilmente tutti i nodi tornano al pettine.Ci troviamo di nuovo a dover sospendere le attività pubbliche del csa, ma questa è forse la parte più semplice della vicenda, nonostante per noi i luoghi come il nExT Emerson rappresentino molto, e non chuidiamo i battenti a cuor leggero.Non ci sentiamo più impreparate di fronte alla realtà del resto del mondo che ci circonda, così confusamente rabbioso, ansiogeno e impaurito. Non ci sentiamo più impreparati perché è la seconda volta che ci ritroviamo davanti ad uno scenario degno di un film apocalittico. C’è chi di fronte a questa prevedibile situazione ha voluto deliberatamente chiudere gli occhi concentrandosi su futili argomenti, come per esempio le elezioni regionali. I veri ciechi ancora una volta sono i nostri potenti. Un motivo c’è per ringraziare questa pandemia: l’aver portato a galla contraddizioni che ormai sono impossibili da nascondere. Abbiamo molte difficoltà a leggere gli scenari che si prospettano, gli eventi si susseguono veloci, anche se le giornate appaiono spesso infinite . Il mondo del lavoro sembra fortemente attestato su una dimensione corporativa che ricorda gli anni ’30 e la genesi del fascismo. Ogni categoria difende i propri interessi e si barcamena nelle proprie difficoltà, ma in mezzo alla protesta non si intravede una spinta alla solidarità e al mutualismo, ma piuttosto una sorta di “io speriamo che me la cavo”. Questo sentimento di avversione nei confronti delle altre persone ci pare alimentato dal mediatico mantra del dover inquadrare, per forza, un nemico nel mirino. Ma il nemico non sono i giovani, non sono le palestre, non sono i teatri e nemmeno i cinema. Nella prima ondata erano i passeggiatori seriali, corridori e bambini nei parchi, demonizzati come dei veri e propri satana a piede libero.C’è chi già dagli anni ’60 aveva teorizzato processi mediatici simili. I media tradizionali e non riescono infatti, attraverso la sola diffusione di informazioni reiterate fino alla nausea, a far coincidere il falso con il vero, in questo caso il giovane con il nemico. Il libero mercato svela in questo contesto il proprio volto più crudele e ingiusto.
Gli aiuti economici vengono elargiti come stimoli all’economia, all’impresa, alle grandi opere e raggiungono le persone in piccola parte per via traverse. Lo stato persiste a ignorare quelle situazioni che non ha mai voluto vedere: chi si barcamena tra lavoro al nero e o in grigio appartiene a una casta di reietti a cui nulla è dovuto. Il capitale affronta la questione pandemica come una crisi, una delle tante, dobbiamo solo attendere la ripresa, entità mitica e escatologica, l’equivalente economico di “domani è un altro giorno” o “non può piovere per sempre”. Come in guerra, si mettono in conto le vittime, quelle causate direttamente da covid, e le altre che dalla crisi usciranno a pezzi.La retorica del semplice capro espiatorio propria di marzo, il runner, il passeggiatore folle e incontrollato, in qualche modo non regge più e dopo un primo tentativo di assalto alla banda dell’aperitivo e alle partite di calcetto, i contagi hanno messo in luce come un virus sia un virus e sia difficile da contenere, e che non c’è una categoria da condannare. Ammalarsi non è una colpa. Questo però non rende meno gravi le responsabilità per il caos nella sanità, nei trasporti, nell’economia, anzi le aggrava. La confusione è uno dei tratti distintivi di questo periodo, le chiusure sembrano decise con una sorta di roulette e estratte a sorte sulla base del peso economico e sociale dei soggetti coinvolti, che svela più che altro la scala di valori della nostra società: la netta distinzione tra famiglia, scuola, lavoro, tempo libero. In quest’ultimo rientrano le attività culturali, ricreative, ma soprattutto sociali: queste sono le prime a cui possiamo rinunciare. Il che è strano perchè in un momento in cui alle persone dovrebbe essere lasciato il tempo di prendersi cura di sè, di guarire, di cercare di stare bene, si decide che una fabbrica di armi o di auto debba continuare a produrre, ma un cinema debba chiudere. E’ su questa scala di valori che si gioca la partita. Il lockdown di marzo, con la demonizzazione dello spazio aperto, non ci ha lasciato il tempo di dedicarci alla nostra salute, ci ha fatto vivere tre mesi nell’angoscia e nell’ansia. Ha funzionato per il contenimento del virus, non c’è dubbio che l’isolamento sia la risposta più rapida, ma senza aver la sicurezza di poter campare, senza sapere quale sarà il tuo futuro è una ricetta mortifera, come lasciare circolare l’epidemia in maniera incontrollata.D’altra parte chiedere al capitale di salvarci significa porsi completamente nelle sue mani. Senza un cambiamento nella scala di valori, senza riportare al centro la solidarietà, il mutualismo, la giustizia sociale, la dignità e l’autonomia delle persone, al di sopra di ogni ragione economica, non possiamo che sentirci come con una pistola puntata alla testa.La pandemia mette ben in evidenza come il nostro modello economico sia inadeguato, non solo a prendersi cura della salute delle persone, ma probabilmente proprio alla sopravvivenza della specie, e non ci permetta di fare le scelte giuste, ma sempre e solo quelle economicamente convenienti. Sicuramente sopravviveremo alla pandemia, ma nei numeri per cui sarà economicamente sostenibile e alle condizioni imposte dal capitale.
Le piazze di queste settimane ci confermano la situazione complessa: si passa da rivendicazioni di categoria, quasi corporative come detto in precedenza, a convocazioni su parole d’ordine generali, che raccolgono il disagio crescente, in qualcosa che appare una sorta di catarsi di emozioni di pancia. Spesso si fa riferimento all’età relativamente giovane dei partecipanti alle proteste più accese, come se ci si stupisse che di fronte alla prospettiva di avere una vita fatta, nel migliore dei casi, di solo lavoro o disoccupazione, in cui la socialità viene additata come irresponsabile, le persone si sentano travolte da pulsioni violente. Le condanne sono facili da parte di chi ha uno stipendio garantito e un futuro meno incerto di quelle piccole masse che a tratti scendono in strada. Chi vorrebbe poter tenere aperto il ristorante o il bar qualche ora in più, la palestra, la piscina, il cinema, il teatro, chi ha visto il crollo del fatturato della propria attività, chi vorrebbe una trasformazione sociale di ampia portata in senso egualitario, chi in senso autoritario, chi vorrebbe uno stato forte, chi non lo vorrebbe affatto, chi vorrebbe il socialismo, chi una democrazia più giusta e chi “meglio quando c’era lui”, chi non sa bene cosa vorebbe, ma di sicuro non questo presente. Sono piazze impossibili da tratteggiare, difficile capire dove si possa andare a parare. Difficile capire se andranno oltre allo sfogo del malessere accumulato da marzo, o si sgonfieranno con l’arrivo di bonus e accordi di categoria, e rimaranno solo le persone escluse, invisibili se non quando si scontrano con la polizia, sempre più depresse e arrabbiate.Non è un caso che nella prima parte della pandemia la retorica di guerra fosse così in voga, si sta parlando di sacrifici e di morti. Eppure continua a non esserci nessuna guerra, a parte le solite. C’è una pandemia, e ogni analisi che prescinda dalla questione sanitaria o la semplifichi è incompleta e poco convicente. Il conflitto capitale-società è ora molto evidente: non possiamo aderire alle prescrizioni sanitarie nella tranquillità che questo sia un momento di cura, ma dobbiamo farlo nella consapevolezza che se non lavoriamo non potremo campare, che il debito contratto ora con il capitale, ci perseguiterà per generazioni. E’ come se all’improvviso si fosse reso estremamente palese e manifesto che il meglio che il nostro sistema economico riesce a pensare per noi è: vi assicuriamo che gli scaffali dei supermercati saranno sempre abbastanza pieni, a tratti sarà necessario andare a fare la spesa divisi in unità e limitarsi ai beni essenziali. Il che potrebbe anche essere accettabile durante un’emergenza sanitaria, se al di fuori di quell’ambito potessimo contare su una vita degna e appagante, potessimo concentrarci sulla nostra salute fisica e mentale, se potessimo intravedere un senso e una prospettiva. Ma possiamo? O siamo costretti a accettare perchè immaginare e costruire un’alternativa non ci è concesso?
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